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Fest’ e fiera, quadri di un museo della memoria

A fine giugno è uscito per Radici Edizioni Fest’ e fiera, secondo album d’artista di Michela Di Lanzo che dopo essersi confrontata con le fiabe di Antonio De Nino all’interno de La martavella, questa volta ha lavorato in simbiosi con la etnoantropologa Adriana Gandolfi per sviscerare con penne e pennelli le feste e i riti più importanti della tradizione abruzzese. Quelle che riportiamo di seguito sono le considerazioni sul libro da parte del professor Vincenzo di Cato, invitato come relatore ad agosto Raiano.


Parlare di libri, al giorno d’oggi, è impresa alquanto difficile.

La disaffezione alla lettura è, purtroppo, fenomeno dilagante e inarrestabile.

Gli esperti spiegano che è questione di stili cognitivi, di intelligenza, di culture.

La cultura della vecchia generazione faceva affidamento a intelligenze “sequenziali”, lineari, procedurali: intelligenze consone all’alfabeto e al linguaggio verbale.

La cultura delle nuove generazioni, al contrario, si avvale di intelligenze “simultanee”, globali, più consone all’immagine.

Guardare non è vedere, non richiede attenzione, non favorisce la riflessione. Spesso per i giovani l’atto del guardare diventa rituale collettivo, spettacolo, partecipazione diretta e conviviale.

Parole e immagini, linguaggio verbale e linguaggio iconico si incontrano e si fondono nell’opera di Michela Di Lanzo e di Adriana Gandolfi dando vita a un invitante racconto per immagini: un Album di 13 tavole che, calendarizzate, raccontano le feste e i riti della tradizione popolare abruzzese, dal Carnevale alla notte di San Giovanni, dai riti pasquali a quelli della transumanza.

Il mondo illustrato da Michela Di Lanzo è quello, dunque, della cultura popolare. Una cultura declinante, forse agonizzante ma non ancora defunta alla quale l’artista non guarda con l’occhio del rimpianto per ciò che è andato perduto ma con lo spirito di chi quella cultura vuole far rivivere a dispetto del nuovo che avanza con le sue teorie di progressismo ideologico che vuole liberarsi del peso ingombrante del passato e delle tradizioni.

Le illustrazioni di Michela Di Lanzo non descrivono ma evocano il passato.

La tradizione, la cultura popolare è essenzialmente cultura dialettale.

Come affermava Pirandello: se l’italiano, di una cosa, esprime il concetto, il dialetto, di quella cosa, esprime gli affetti.

Le illustrazioni di Michela Di Lanzo non esprimono concetti ma toccano la sfera delle emozioni e degli affetti. Ecco perché possiamo definire la sua pittura “Pittura Dialettale” e le sue tavole “quadri di un museo della memoria”.

Nell’opera è presente una struttura popolare paragonabile, nel piano linguistico, alle strutture dialettali (lessicale, sintattica, intonazionale) che caratterizzano la varietà dell’italiano regionale. Queste strutture fanno sì che all’abbandono del dialetto e della cultura popolare non corrisponda la loro scomparsa definitiva.

Insomma, quando un abruzzese, un veneto, un siciliano parlano in italiano, dalla intonazione, dal lessico, dalla costruzione sintattica dei loro discorsi riusciamo a scoprire la loro origine.

Queste strutture popolari sono le radici delle nostre origini e nelle illustrazioni di Michela Di Lanzo le origini e le radici di appartenenza entrano prepotentemente in gioco caratterizzandone il linguaggio espressivo e pittorico.

Le radici di Michela affondano nella terra di Bucchianico, suo paese natale. Un paese a metà strada tra mare e montagna, tra Adriatico e Maiella, un paesaggio terra-mare trasfigurato dalla sua pittura che ricerca l’arcaicità, il primordiale, la memoria.

Memoria anche di odori e di sapori.

Fest' e fiera Tavole

Per secoli l’illustrazione è stata al servizio del testo, soprattutto nella letteratura per l’infanzia e nel genere avventura, l’illustrazione, inserita tra le pagine, interveniva a dare un volto ai personaggi, a sceneggiare una vicenda scatenando la fantasia dei giovani lettori. 

Con “Il Piccolo Principe” il disegno diventa parte integrante del testo. È dalla richiesta di disegnare una pecora che ha inizio il rapporto con il narratore, lo stesso incipit è affidato al disegno di un boa che ha mangiato un elefante.

Ma non solo nella letteratura per l’infanzia, anche molte opere scientifiche e di divulgazione si sono servite dell’illustrazione come supporto, per tacere il giornalismo. Si pensi alle illustrazioni della “Domenica del Corriere” o alle vecchie “Tribune” in cui l’illustrazione raccontava fatti di cronaca e di costume.

Con l’Album i ruoli si invertono: nell’Album è il testo a fare da supporto al disegno. In “Fest’e Fiera”, però, tra illustrazione e testo non sussistono rapporti di subordinazione quanto di coordinazione: illustrazione e testo si affiancano ripercorrendo il ciclico susseguirsi delle stagioni, ricostruendo, con linguaggi diversi, le storie che raccontano riti e tradizioni.

I testi di Adriana Gandolfi spaziano nell’universo della cultura popolare con intento essenzialmente divulgativo, con una narrazione affabulatrice che sviluppa i temi in diversi atti di un’unica azione scenica riconducibile al recupero del patrimonio della cultura dialettale con continui richiami a termini, espressioni, proverbi, canti, filastrocche.

In copertina, un occhio incastonato in un tondo che anticipa i vari contenuti, ci invita ad entrare nell’universo del libro.

Alcuni riti elencati nel Calendario Illustrato, se confrontati con la nostra realtà raianese, portano a pensare a una poligenesi degli stessi in modo da presentarsi in tempi diversi pur mantenendo una comune forma di pensiero.

Adriana Gandolfi, ad esempio, ci racconta il “Ballo della Pupa” di Francavilla al Mare rappresentato all’imbrunire del 13 dicembre, giorno di Santa Lucia. La “Pupa” altro non era che un fantoccio dalle esagerate fattezze femminili, circondato da una struttura che sosteneva petardi e fumogeni colorati, animata da un uomo celato al suo interno cavo che la faceva ballare. A Raiano, la pupa che chiamiamo “la Pantaseme”, ballava il 18 agosto, alla chiusura della festa patronale di San Venanzio.

La pupa di Francavilla omaggiava Santa Lucia, patrona della luce, degli occhi e, quindi, della buona vista. Si celebrava, perciò, nel periodo più buio, nella notte più lunga dell’anno. La religiosità popolare, dunque, si affidava alla Santa per propiziare la rinascita del sole nel solstizio d’inverno utilizzando il fuoco come tramite simbolico. A Raiano, il fuoco della “pantaseme” simboleggiava la purificazione e, comunque, un rito di fertilità della terra, ricordando le accentuate fattezze femminili della “pupa” l’immagine dell’antica Dea Madre.

Nell’illustrazione di Michela la rappresentazione del Ballo per Santa Lucia è affidata alla figura di una donna, metà santa e metà pupa che guarda lontano, con dita poggiate sugli occhi a mo’ di cannocchiale, con lunghe trecce che scendono su un costume che ricorda la “squaw” indiana, con occhi disegnati sul corpetto e con capelli che esplodono in fuoco pirotecnico.

Fest' e fiera Raiano

Altro rito di poligenesi è quello della Notte di San Giovanni che Michela illustra con un mazzo di fiori e di erbe sullo sfondo di un sole che nasce dal mare.

Adriana Gandolfi spiega che la venerazione popolare associa a San Giovanni il protettorato dell’astro solare, collegando al sole la sua testa insanguinata che si manifesta appunto all’aurora. Ed era prima dell’alba, ci ricorda, che aveva inizio il rito del ‘comparatico’ (“lu cumbarate”).

Rito presente anche nella nostra tradizione raianese.

Gli aspiranti compari e commari, racconta Adriana, si scambiavano un mazzetto di fiori (“lu ramajette”), poi intrecciando le dita del mignolo destro recitavano la formula:

Cumbar’ e cummarozze facemece le nozze, 

le notte de Natale jocemece a cumbore, se mane de vudere u in bene. 

ce ne jeme, se bene ce purteme ‘mbaradise ci artruveme.

A Raiano, i mignoli erano quelli della mano sinistra e la formula era la seguente: 

Cumpare i cummare, facemese a cummare, 

I se ce ‘ngagneime a j’ mbierne ce ne jeime. 

La versione raianese, inoltre, aveva un’appendice: gli aspiranti compari e commare si strappavano un capello e pronunciavano la formula:

Cauemese ne capiije i demeje a j’ rijje.

Tutte le tavole illustrate da Michela sono un’esplosione di colori, una teoria di maschere trasfigurate, di animali domestici, di figure assemblate con elementi a tema, come la tavola relativa ai riti della Pasqua in cui compaiono il volto sofferente di Cristo nel sudario circondato dai simboli della Passione, da penitenti incappucciati e dal fazzoletto delle lacrime della Madonna dal quale sboccia una rosa rossa.

Un gallo, simbolo di resurrezione, poggia sulla croce: un caleidoscopio fantasmagorico e sinottico di elementi a tema. Come il Sant’Antonio Abate, sorridente e benedicente, con aureola e barba, circondato da fiamme ardenti dell’Inferno, in mezzo ad animali domestici, simboli che conferiscono al Santo proprietà agricolo-protettive. Come la testa di San Domenico, aggrovigliata dalle spire di un serpente che, con occhio languido, fissa lo spettatore ricordandogli che il Santo protegge dal mal di denti, disegnati questi ultimi sulla pelle squamosa.

Intrigante l’illustrazione che compare nel capitolo del “Potere rigenerativo delle grotte” in cui si fa riferimento alla tradizione leggendaria di San Venanzio.

Michela disegna una grotta con specchio d’acqua che, fiabescamente, evoca la bocca di una balena o di un pescecane con denti aguzzi di stalattiti e stalagmiti, ma anche di girone dantesco, di litografia che evoca Gustave Dorê: un luogo “d’ogni luce muto” e “d’ogni musica cieco”. Un silenzio assordante di pietra e di roccia che guariscono la sterilità, le ossa malate, il mal di reni, di acqua miracolosa del fiume che guarisce le parti malate del corpo.

Gli artisti scrivono, scolpiscono, dipingono con lo scopo di gratificare lettori e spettatori. Non sempre riescono nel loro intento. Quante volte un romanzo, un quadro hanno illuso o deluso le nostre aspettative?

Accade un po’ come con i piatti della cucina: il pensiero o la vista di un cibo particolarmente gradito secernono la salivazione ed eccitano l’appetito, si sente l’acquolina in bocca, cresce l’aspettativa emozionale di desiderio, di gusto, di appagamento. Quando i sapori, però, disattendono l’aspettativa subentrano la delusione e la frustrazione.

Si può parlare di sapori, di aspettative emozionali, di appagamento, di frustrazione anche in ambito di narrazioni e di arte. Anche le opere hanno un sapore: possono essere dolci, amare, salate, acide.

Mielose sdolcinature si assaporano nelle opere di Raffaello, le tele di Caravaggio masticano amaro, l’acidità si avverte in un narratore quale Antonio Pennacchi.

In “Fest’ e fiera” è presente invece l’umami, il contaminato, il giusto equilibrio tra parola e immagine, il saporito insomma, così come saporita è tutta la cultura dialettale.

 

Professor Vincent di Cato

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