Come i balconi di città

La regione verde

Quello che potete leggere qui di seguito è uno dei racconti di Roberto Cipollone raccolto nel suo Come i balconi di città, primo libro della collana Germogli della casa editrice Radici Edizioni. Il libro racchiude in totale undici storie che parlano di paesi e lontananze, di città e ritorni, di cure e passioni. Undici sguardi su mondi reali e immaginari e sull’umanità varia che è in grado di popolarli. La regione verde è il racconto che apre il libro e quello con cui l’autore ha voluto narrare la “storia surreale dell’incontro tra l’istituzione e il mondo antico d’Abruzzo, con tutte le sue contraddizioni, la sua resistenza al passato e al futuro, la sua ricchezza lasciata in disparte. Cercando di rappresentare le storie di chi è sempre a metà, tra il paese e il mondo”. Buona lettura.

Come i balconi di città

Il sottosegretario alle faccende cromatiche non era un tipo facile. D’altra parte quella promozione non era arrivata per caso, dopo i successi ottenuti al Ministero della catalogazione ferrea. Era stato lui, tra l’altro, ad attestare la profondità della foresta nera, come anche la temperatura carminia della piazza rossa.

Questa missione, però, sembrava già più complicata.

Tutto era partito da un paio di segnalazioni arrivate al protocollo di sedicenza cromatica, e la cosa sembrava seria. Un’intera area dell’Italia centrale si era autoproclamata “regione verde d’Europa” senza che nessuno, al Ministero o agli uffici di affaccendamento, avesse ricevuto formale certificazione francobollata. Quindi al sottosegretario Vandergreng non era rimasto altro che istruire la pratica e la valigia e partire per questa ipotetica regione verde, “Gli Abruzzi”. Che poi saranno tre/quattro pezzi incollati, aveva pensato subito prima di fare qualche ricerca e riempire di appunti il fedele taccuino nero ricco, certificato pure lui CMYK 65-52-51-100.

Nel giro di pochi giorni era riuscito a farsene un’idea vaga ma sensata. Tre ore per raggiungere Roma, poi altre sei/sette passate sul treno superaccelerato che risorgendo da Colli di Monte Bove entrava come una lama nella parte più remota della regione. “Entroterra”, si era appuntato sul blocco come un novello Jules Verne. “Entroterra”, un po’ gli faceva paura e lo attraeva insieme. In effetti il sottosegretario un po’ di italiano lo masticava, che la cosa fosse o meno d’aiuto in quella missione arcaica.

Seduto a schiena dritta sul terzo vagone, aveva cominciato da subito a prendere appunti registrando sul mini-recorder tutto quello che i finestrini del treno gli passavano davanti, come una lunga sequenza di quadri. “Tonalità di verde tendente al grigio, alberature intense, paesi sparsi guardati da montagne ferme, a tratti brulle”.

Vandregreng aveva deciso di partire dal centro esatto dell’Abruzzo e procedere a spirale fino a toccarne i confini per chiudere la pratica con un colore esatto, verde o meno che fosse.

Le linee diagonali tracciate sulla carta si erano incrociate a BorgodiRoccaCasalSanBerardo, un paese di quattromilaseicento anime montanare tra la piana di Navelli e il resto.

Arrivato con l’autobus dei Romani, non si stupì delle facce perplesse e curiose che lo guardavano ogni tanto dalle sedie del tresette. “A chi sarrà jo figlio?”, si sarebbero chiesti i vecchi qualche anno prima, ma ormai Julius Vandergreng era un uomo fatto e finito con la valigia seria e un aggeggetto curioso in mano. “Sarrà ‘n atro giornalista che vò sapè la storia della Madonna”, disse Pietro, il più svelto dei guardatori, e così fu. Per tutti, da quel momento, Vandergreng fu “jo giornalista”.

Curioso, a modo, con quella parlata strana e il taccuino sempre con sé, in poche settimane si fece apprezzare, stando al gioco e cercando di entrare nelle storie del paese. Poi alla fine, deciso ormai a partire, scrisse la sua sentenza sul blocco: “Rosso sangue, l’Abruzzo è rosso sangue”.

Comprensibile, d’altronde era arrivato nel momento in cui i porcili si svuotavano con naturalezza e le cantine si popolavano di salsicce appese e qualche prosciutto, pochi, ad asciugare. “Qui è impossibile staccarsi da un senso di sopravvivenza fermo nel tempo”, aveva scritto, “quasi ogni famiglia alleva ancora almeno un maiale e ognuno fa senza dubbio le migliori salsicce del paese”.

Di verde ce n’era tanto, tutt’attorno, ma si capisce bene come fosse svanito presto, nella mente del sottosegretario, sotto le voci straziate di quelle bestie e i rivoli rossi e l’acqua bollente.

Colore in tasca, Vandergreng si era deciso a partire ma non era ora, ché la neve, si sa, fa come vuole e anche quella volta si mise in mezzo senza chiedere. Rimessa l’anima in pace, il giornalista capì che non era destino e colse l’occasione per farsi portare su alla rocca, a guardare la piana innevata. Ci trovò un silenzio irreale, ovattato, rotto solo dallo scricchiolio di qualche ramo e dalla voce dei casaricci, come chiamavano lì i passerotti, usciti in cerca di briciole.

“Bianco naturale, freddo”, scrisse sul blocco ripensando alla normalità con cui gli adulti avevano accettato l’arrivo della neve. “Stemo a febbraro”, disse la signora dell’alberghetto, “callo non po’ fa”.

Quel bianco aveva sbiadito anche i rivoli animali e rimescolato le carte quasi francobollate dell’attento sottosegretario, che decise così di restare un po’ di più e capire meglio di che colore fosse veramente quel mondo.

“Verde mosso”, scrisse sul taccuino qualche settimana dopo. “Qui la primavera arriva fredda e impetuosa, ti fa capire subito che di lei non devi fidarti anche se i campi sono già rinverditi. La notte va avanti da sé e non ascolta”. Il verde era arrivato, alla fine, ma non da solo, e la convinzione si rafforzò nei giorni successivi. D’altra parte il giornalista era ormai entrato nelle confidenze del paese e ognuno cercava di svelargliene un pezzo ancora sconosciuto. La genziana, soprattutto, che come le salsicce ognuno faceva meglio.

“È giallo-arancio questo mondo”, scrisse. “Amaro ma attraente, vero perché viene da una terra di montagna che dalle pietre prende il meglio e lo rende compagnia, e canzoni”. Ne cantava pure lui, quando la seconda genziana chiamava la terza, ché ormai “jò còre della mamma” e altre strofe le aveva imparate pure il giornalista.

Una volta, quando era arrivato pure maggio e qualcuno ancora si sposava, aveva partecipato pure alla serenata. Lauretta mia, Piccolo fiore e una terza canzone tutta loro meno antica e meno urlata, fino a fargli scrivere che “la poesia è arrivata anche qui ma si nasconde, non si dà a vedere per non diventare canzonetta. Chi ne ha, la tiene in pochi fogli da non far leggere, salvo poi rivelarla quando lei stessa lo richiede”.

Non era riuscito a dare un colore a quel momento, un po’ se n’era infastidito ma era chiaro che quella terra non poteva chiudersi in un nome solo, per quanto ricco o sfumato.

“Mittici celeste, comme jo velo della Madonna”, disse la signora della pensione. “Ma no azzurro, turchese… celeste, da cielo”.

Aver confidato la propria missione lo aveva alleggerito, certo, ma questa nuova idea complicava un po’ tutto e non campava in aria, o in cielo appunto. Perché la festa della Madonna arrivò davvero e il paese si riempì ancora, con quel frastuono che dura poco ma che porta tutto travolgendo. Il quadro girava avvolto nel suo telo prezioso e tutte le strade richiamavano il colore del cielo, come a volersi avvicinare a lui. Vandergreng prese appunti con gli occhi e rimase tutto il tempo a chiedersi cosa spingesse tutte quelle persone a seguire un piccolo quadro lungo le stradine del paese più al centro dell’Abruzzo. “I vecchi e le donne ci credono ancora”, scrisse dopo, “ai miracoli e alle raccomandazioni pregate. I più giovani seguono la festa, il campari, non sanno tutta la storia ma vogliono comunque farne parte. Questo è il loro paese, che ci vivano o meno, ma non è celeste questo mondo”.

Da lì il mare non si vedeva ancora, d’altronde, eppure i tresettisti del bar dicevano che nei giorni di cielo limpido si poteva scorgere, dall’eremo su a monte. Il giornalista però non s’era fatto attrarre dall’idea, convinto del fatto che il colore di quella terra dovesse rifletterne i tratti più densi, l’entroterra che per primo aveva scritto sul foglio. C’era anche il mare, certo, ma questa era cosa nota e invece lui ormai voleva entrare nelle viscere. E ci arrivò.

“Qui veniamo tutti dalla terra”, gli disse un giorno don Mariano, che don non era e neanche nobile, ma in gioventù aveva studiato e tanto bastava. “Se c’è una cosa che ci accomuna è proprio questo: la terra. E la nostra è una terra nera come la fatica, non si faccia ingannare dall’oro rosso che ne caviamo. Sotto, la terra rimane nera”.

Ormai la confusione era totale ma in qualche modo doveva pur chiudere la sua missione, tanto più che al Ministero ormai lo richiamavano da mesi. “Cromatismo complesso, necessario approfondimento stop”, aveva scritto con decisione, ma avrebbe retto poco.

Decise allora di mettere gli scarponi ai piedi e aggregarsi alle uscite in montagna, che lì dominava e guardava tutto. E dall’alto, giorno dopo giorno, rivide ogni cosa: il cielo e il laghetto a ricordare il mare, il bianco delle pietre, i fragili punti colorati lasciati a morire prima dell’inverno. E su tutto, come un manto, il verde che non aveva mai cercato ma che avvolgeva il paesaggio come una mamma. Ciò che non si spiegava, allora, era perché questo tesoro verde svanisse quasi, nelle intenzioni e nei pensieri. Perché non se lo tenessero stretto al cuore come facevano con il resto delle cose che il tempo gli aveva lasciato, e anzi permettessero che dall’alto glielo portassero via a pezzi, come era successo da poco coi confini della riserva…

“In capo a tutti c’è Dio”, gli disse alla fine Pietro, “e dove c’era Torlonia adesso c’abbiamo altri padroni, coi loro amici e gli altri amici. Poi nulla. Poi ancora nulla. Poi ancora nulla. E poi il pover’uomo”.

Il sottosegretario rivide allora quel senso della vita che tante volte aveva sentito strisciare nei discorsi, prese il taccuino con un sorriso amaro, sospirò un po’ come chi è arrivato alla fine di un bel viaggio e finalmente scrisse la sua sentenza.

“Regione verde.

Certificata.

Ma verde meno”.

 

 

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