Eccidio di Capistrello. 33 martiri e un armadio della vergogna
Il prezzo della libertà, a me, l’ha insegnato mia nonna. Mia nonna si chiama Lelia e oggi ha 93 anni. È stata, quando era giovane, la fornaia del paese. Oggi invece le fa compagnia un Alzheimer di quelli tosti, che le fa pensare alla sua testa come a un gomitolo di lana da filare 24 ore al giorno, per intenderci. Fino a qualche anno fa, però, quella stessa testa era una memoria storica che non potevo far altro che invidiare, appassionato com’ero a cercare di capire tutto quello che era successo quando le probabilità che io venissi al mondo non erano state ancora prese in considerazione da mamma e papà. Per questo ogni santa domenica del signore, quando Lelia era al mio fianco durante gli interminabili mega pranzi familiari, si prospettava un’occasione buona per conoscere quello che era successo nel mio paese molti anni prima. Fu così, durante una delle innumerevoli portate domenicali, che venni a scoprire per la prima volta la storia dei 33 martiri di Capistrello, gente comune – per lo più pastori – che sarà ricordata sui libri di storia proprio per essere stata parte di quel prezzo di libertà pagato dal nostro paese durante la seconda Guerra mondiale.
Nonna se lo ricordava bene quel periodo, quando dopo la rottura del fronte tirrenico della linea Gustav, alcune truppe di tedeschi in ritirata dopo la battaglia di Montecassino si ritrovarono a percorrere le strade della nostra Valle Roveto. Le giornate, lei, le passava alla finestra a contare le bombe che gli alleati sganciavano sulle montagne del circondario per bloccare le truppe di Hitler, con buona pace della suocera terrorizzata che le urlava di andare a nascondersi in cantina. Ma nonna pensava di non dover aver paura in quei giorni. Qualche tedesco infatti stazionava già in paese e si era dimostrato tutt’altro che temibile. Sarà stato per la fame, per la paura, per l’estenuante fuga da una guerra che ormai era diventata insopportabile, ma le avanguardie dei “crucchi” arrivati in paese, per mia nonna, erano tutt’altro che crudeli. Piuttosto gente a cui dover donare, per carità umana, almeno un pezzo di pane.
L’eccidio alla stazione ferroviaria
Ma quello che non poteva sapere all’epoca, mia nonna, è che nelle guerre certo non decidono i poveri cristi. E che se dai comandi generali decidono di vendicarsi, c’è ben poco da scherzare. Proprio quello che successe in quei primi giorni del giugno del 1944, quando da Berlino arrivò l’ordine di rappresaglia contro la popolazione locale e le truppe rastrellarono sulle montagne circostanti un gruppo di cittadini inermi provenienti dai paesi limitrofi. Fatti scendere nei pressi della stazione ferroviaria, la storia racconta che i 33 non ebbero scampo e che la crudeltà ebbe la meglio in poco tempo e senza troppe parole. Parole che a questo punto della storia, però, è meglio lasciare all’unico sopravvissuto di quella triste vicenda. Si tratta di Luigi Fedele, riuscito a scappare durante il rastrellamento, e che così racconta quelle ore in una testimonianza raccolta nel libro Otto mesi di ferro e fuoco, di Antonio Rosini: “Alle quattro del pomeriggio del 4 giugno 1944, festa della SS. Trinità, una violentissima grandinata si abbatté sul Fucino. Contemporaneamente, nei pressi della stazione di Capistrello, trentatré uomini, tra cui un ragazzo di tredici anni, venivano fucilati: uno per volta, con un colpo alla nuca, sul bordo di una fossa scavata da una bomba, una fossa che fece da bara per tutti”.
Nonna e i suoi concittadini, di questa triste storia, non seppero nulla per giorni. Come non vennero messi a conoscenza i parenti delle vittime, che fino al 9 giugno cercarono inutilmente notizie dei propri desaparecidos. Il prezzo della libertà era stato pagato, ma l’esercito tedesco si guardò bene dal vantarsi di uno dei crimini più feroci perpetrati nel centro Italia durante gli anni più bui del conflitto e la triste scoperta fu fatta solo con l’arrivo in paese degli alleati.
L’armadio della vergogna
Il resto della vicenda, invece, è quella di una storia tutta all’italiana, con i documenti relativi alla strage (e di altri crimini perpetrati durante la guerra) che emergono solo nel 1994 all’interno di quello che verrà definito l’armadio della vergogna, ritrovato, con le ante rivolte al muro, in uno sgabuzzino della cancelleria della procura militare nel Palazzo Cesi-Gaddi a Roma. Anche per questo motivo la strage di Capistrello rimarrà impunita, e i mandanti e gli esecutori materiali non saranno mai individuati e benché meno mandati a processo davanti a un giudice. A nulla sono valse così le ricerche di chi non si è mai rassegnato, come lo stesso Rosini, che nella strage perse il padre e uno zio, o come le amministrazioni comunali del piccolo borgo marsicano che negli anni hanno provato a portare a galla la verità.
A nulla se non a far ricevere a Capistrello, nel 2005, la Medaglia d’oro al Merito Civile assegnata dal Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi per essere stato oggetto “della cieca ed efferata rappresaglia delle truppe tedesche in ritirata”. Magra consolazione, in definitiva, arrivata solo a sessant’anni dagli avvenimenti, ma che in qualche modo può rappresentare ancora il segno e il monito di un passato da ricordare sempre, anche quando i testimoni, come Lelia, avranno smesso di raccontarcelo.
Approfondimenti
4 giugno 1944. Le voci spezzate dei martiri di Capistrello. Un libro di Alfio Di Battista
Il blog di Antonio Rosini, da cui è possibile scaricare anche i suoi libri.
La voce di wikipedia sull’Armadio della vergogna.
Il blog Storie dimenticate: nel post dedicato all’Eccidio di Capistrello anche le testimonianze delle autopsie sulle vittime.
Gianluca Salustri
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