Padre Antonio Tchang. Il frate cinese che si salvò sul Salviano
La storia che state per leggere è riportata in Padroni di niente, libro di “testimonianze e vicende marsicane al tempo dell’occupazione tedesca”, a cura di Osvaldo e Roberto Cipollone (che ringrazio per aver messo a disposizione il testo). Con Roberto, tra l’altro, ci lega un rapporto di amicizia e di collaborazione professionale che dura da anni, e sarà un piacere ospitarlo come uno dei primi autori presenti nel catalogo della nascente Radici Edizioni. Di questo però ne parleremo in altri luoghi, qui invece è dove si può approfondire l’incredibile storia di padre Antonio Tchang, uno dei 116 cinesi internati in Abruzzo nel Campo di concentramento di Isola del Gran Sasso durante la Seconda guerra mondiale. Buona lettura.
Padre Antonio Tchang era un francescano nato in Cina nel 1911. Divenuto sacerdote, durante il periodo bellico nel nostro Paese cercò di aiutare la gente che fuggiva dalla repressione nazifascista. In precedenza, negli anni Trenta, aveva esercitato la sua missione di solidarietà a Brescia, dove seguiva i propri compatrioti residenti in Veneto. Allo scoppio della seconda guerra mondiale fu nominato cappellano del campo di internamento dei Cinesi. Nel 1941 ricevette dalla Santa Sede l’incarico di assistente spirituale del campo di Isola del Gran Sasso, in provincia di Teramo, dove tanti cinesi erano rinchiusi in una struttura situata vicino al santuario di San Gabriele dell’Addolorata. Dopo l’armistizio dell’8 settembre anche il campo di Isola fu sconvolto dagli eventi e il santuario di San Gabriele divenne luogo di accoglienza per i soldati ed i prigionieri alleati in cerca di rifugio.
Il frate francescano riuscì ad aiutare moltissimi di loro senza farsi scoprire dai tedeschi che gli davano la caccia. Questi, però, gli tesero una trappola e il 27 novembre 1943 gli si presentarono vestiti da inglesi. Il frate aveva intuito il pericolo, ma cadde comunque nel tranello e venne arrestato. Perquisita la sua cella, i militari recuperarono una radio, una macchina fotografica e una pistola. Il ritrovamento della rivoltella, in particolare, fu determinante per l’accusa e la conseguente condanna. Padre Antonio fu internato dapprima a Teramo, poi a L’Aquila ed infine ad Avezzano. Posto davanti al plotone di esecuzione nel cortile del carcere di Avezzano, si salvò grazie all’intervento di alcuni aerei inglesi che bombardarono il campo di detenzione con lo scopo di fare fuggire i prigionieri. Il frate con gli occhi a mandorla riacquistò dunque la libertà proprio mentre era pronto davanti a lui il plotone d’esecuzione. Il carcere fu colpito duramente e tutti, compreso Padre Tchang, ne approfittarono per darsi alla fuga.
Nell’immediato venne aiutato da monsignor Franco Michetti che lo fece sistemare presso un’abitazione alla periferia di Avezzano. Qui venne accolto, rifocillato e vestito con abiti da contadino. Ricevuta poi in dotazione una zappa, se la mise in spalla e s’incamminò. In queste nuove vesti riuscì a nascondere la propria identità e affrontò il destino percorrendo le pendici del Monte Salviano, in direzione di Cappelle. Arrivato il crepuscolo si addentrò nella boscaglia e, fattosi buio, si mise a dormire tra la rada vegetazione coprendosi con arbusti, foglie e sterpaglia. All’alba affrontò la china del monte scrutando guardingo ogni movimento attorno. Raggiunta la sommità, scrutò la piana a 360 gradi; da lì poteva distinguere i paesi del circondario sparsi a raggiera: Avezzano, Antrosano, Cappelle, Magliano, Rosciolo, Scurcola, Villa San Sebastiano, Corcumello… Per un attimo fu combattuto su quale direzione prendere. Restò immobile, poi si mosse, trovandosi di fatto allo scoperto. Allora camminò carponi, zigzagando tra arbusti di bosso, di timo e di salvia. Qualche minuto dopo i suoi movimenti vennero intercettati da due pastorelli di Cese, il paese che inizialmente il frate non poteva vedere poiché coperto dalla china del monte. I due adolescenti si trovavano a guardia delle proprie greggi in prossimità di Monte Cimarani quando iniziarono a richiamare la sua attenzione. Percepito il sibilo possente dei fischi, come quelli che solo i pastori sanno modulare, il fuggitivo si bloccò. I due ragazzi, a quel punto, vollero fugare ogni sua paura. Fu così che, dopo qualche attimo, presero a chiamarlo ad alta voce: «Chi sei, dove vai?». Il fuggiasco si alzò e i pastorelli, notata la sagoma minuta, gli inviarono altri segnali agitando mani e bastoni. In verità avevano al seguito anche due bianchi pastori abruzzesi, che in quel momento cominciarono ad abbaiare all’unisono. Solo quando vennero calmati il forestiero si avvicinò. Fra i tre si respirò subito cordialità, tanto che poco dopo consumarono insieme una frugale colazione a base di pane e formaggio. Dopo gli approcci di circostanza, Umberto ed Enrico Cipollone – questi i nomi dei pastorelli – invitarono Padre Antonio a scendere con loro in paese. Era il 16 gennaio del 1944, giorno della vigilia di S. Antonio, suo onomastico, e Padre Antonio venne ospitato presso l’abitazione di Luciano (padre di Umberto), situata nella zona nord del paese.
A dire il vero, all’interno di quella casa vi erano già altri ospiti: due sfollati di Avezzano. Uno di loro, purtroppo, era affetto da scabbia, una malattia infettiva, per cui Angela, moglie di Luciano, pur dispiacendosi invitò i due a cercare un’altra dimora, con la promessa di continuare ad assicurare loro un pasto giornaliero. La povera donna prese a pretesto l’eventuale contagio della malattia: «Non so come curarti; ho dei figli e non posso rischiare …». I due avevano comunque notato la presenza del nuovo arrivato, per cui capirono le perplessità della donna e si adattarono a dormire in un fienile vicino, continuando a ricevere i pasti giornalieri dalla famiglia. Il paese era stracolmo di gente fuggita dai bombardamenti e dal pericolo della guerra. Fuggiaschi e prigionieri venivano nascosti nelle soffitte, nelle stalle e in campagna per eludere i controlli dei tedeschi, che nel frattempo erano divenuti i padroni del paese, dettando regole e condizioni.
In quei giorni il frate si sistemò nella stanza di Mario e Peppino, i figli della coppia che erano in forza all’Esercito Italiano. Era lì che leggeva, mangiava e pregava. Qualche isolato più in là, nella casa dello “Spazzacamino”, risiedeva un ufficiale tedesco; una persona considerata molto a modo. Fu questi a confidare l’imminente perquisizione della casa dove risiedeva il cinese. Messo in guardia, Luciano consigliò al ricercato di traslocare in un altro luogo. Recuperati quindi un materasso, un cuscino e delle coperte, lo accompagnò alle pendici del monte, proprio vicino a casa sua. In mezzo ai querceti c’era un anfratto naturale nascosto tra piante e rocce. Preparato un giaciglio di foglie secche e di paglia, vi sistemarono il materasso; raccolti poi rami ed arbusti, Luciano ostruì il rifugio mimetizzandolo con la vegetazione. Il giorno dopo, di primo mattino, i tedeschi bussarono alla porta della sua abitazione e, una volta dentro, perquisirono tutti gli spazi. Rovesciarono i letti, aprirono cassapanche ed armadi e, non trovando ospiti, vollero sapere a chi appartenessero pantaloni, giacche e indumenti maschili stipati nella stanza. I coniugi spiegarono di avere altri due figli che prestavano servizio nell’esercito, uno a Udine e l’altro in Albania.
Quindi mostrarono le loro foto, e solo allora i militari si convinsero. Prima di togliere il disturbo, però, tentarono di requisire le salsicce appese per l’essiccazione. Angela spiegò che gli insaccati non erano pronti per essere consumati crudi e lo dimostrò mettendone a cuocere un paio. A quel punto quelli si sedettero, mangiarono, bevvero e solo dopo essersi saziati lasciarono l’abitazione. Tornata la calma, Padre Antonio venne fatto dormire nel rifugio di un vicino, Luchesio Marchionni. Questi abitava a pochi passi da Luciano e aveva realizzato un vano sotterraneo in casa scavando giorno e notte, per assicurare un riparo alla famiglia in caso di necessità. Per un certo periodo Padre Antonio si nascose lì, rimanendo al sicuro in quello “scantinato”, accudito e rifocillato sia dai proprietari che dai numerosi figli. D’altra parte era sempre un fuggiasco, anche se “in libertà vigilata”. Quando non era in atto il coprifuoco, Padre Antonio poteva scambiare quattro chiacchiere con Enrico e Umberto, i pastorelli che lo avevano trovato in montagna. Andava a casa loro, si intratteneva con i parenti, magari consumava un boccone, non disdegnando un bicchiere di vino locale che, seppur leggero, era appetibile e frizzantino. Anche durante questi momenti di spensieratezza, la guerra continuava a seminare le sue tristi conseguenze e a lasciare i suoi strascichi. Un saggio pastore locale era solito ripetere: «La guerra è brutta e tocca a noi sopportarla; i capi sembrano grandi, ma ragionano peggio di qualche bambino».
Fu anche per queste motivazioni che la gente del luogo aiutò volentieri sia il frate francescano che gli altri perseguitati e sfollati. Tra questi c’era a Cese un veterinario di Avezzano, il dott. Panfilo Giorgi, il quale cercava di tenersi continuamente informato sull’evolversi del conflitto. A guerra finita, fu proprio lui a scrivere un articolo su un periodico locale, con un passaggio sul frate cinese che si può sintetizzare così: «Due SS, di corsa e con i mitra spianati, mi chiesero: “Prieftr … Prieftr (prete)?”. “Si, ja … ja”, risposi subito e sicuro, indicando con la mano la strada di campagna che conduceva a Capistrello»[1]. Naturalmente l’indicazione non era veritiera, ma servì ad attuare il depistaggio con il quale il dottore cercò di allontanare i sospetti sulla famiglia che lo ospitava. Viste le pressioni che i tedeschi facevano sulla popolazione, bisognava trovare una via di fuga sicura al frate francescano. Padre Beniamino, priore del Santuario di Pietraquaria, contattò di nascosto Maria Venditti (“Maria della Fonte”), una donna nota in paese anche per la capacità di confrontarsi con i tedeschi. I due predisposero insieme un piano di fuga, d’accordo con il parroco di Cappelle che prese contatti con la Curia Romana.
Un giorno di marzo del 1944, un mezzo della Croce Rossa con targa dello Stato Pontificio percorreva le strade di Avezzano per raggiungere il paese di Ortucchio e caricare dei sacchi di patate. In quello stesso giorno Padre Antonio, camuffato, salì su un carretto che trasportava altri sacchi dello stesso prodotto e fu nascosto dal parroco Don Angelo Barbati nella canonica del paese. L’autista del mezzo, di ritorno da Ortucchio, si fermò nella piazzetta a ridosso della chiesa di Cappelle per completare il carico, ma a quanto pare non poté ripartire a causa di un’avaria. Dal racconto dei testimoni cappellesi sembra che, a quel punto, Don Angelo chiese ad una famiglia di fiducia, quella dei Pasqualoni, di ospitare il frate cinese nella loro abitazione che si trovava nei pressi della stazione ferroviaria. Padre Tchang fu così caricato su una bicicletta da Vincenzo Pasqualoni, ma nel tragitto i due si imbatterono in una pattuglia tedesca; fortunatamente, l’amicizia di Vincenzo con uno dei soldati e la prontezza del frate evitarono richieste di chiarimenti e possibili complicazioni. Per scongiurare problemi alla famiglia, tuttavia, Padre Antonio venne nuovamente riportato in canonica e Don Angelo decise di nasconderlo nell’ossario del cimitero di Cappelle per il tempo necessario alla riparazione del mezzo. Una volta risolta l’avaria, infine, Padre Tchang venne chiuso in un sacco e, nascosto tra gli altri, prese posto sul mezzo che lo portò in salvo a Roma.
Fra i tanti “ospiti” rifugiatisi a Cese c’erano indiani, rumeni, inglesi, scozzesi, marocchini e di altre nazionalità. Il frate cinese era stato uno di loro, ma aveva lasciato come segno del suo credo anche un messaggio che mantiene ancora oggi una grande valenza umana. Finita la “prigionia”, infatti, la missione del frate fu quella di aprire le porte di Assisi a tre giovani di Cese. Due di essi erano i pastorelli che lo avevano accolto: Umberto ed Enrico; a quest’ultimo, poi, si aggiunse il fratello Rocco. La provvidenza volle che i due fratelli seguissero le orme del francescano cinese prendendo i voti. A guerra finita, Padre Tchang fece ritorno nella sua Cina, dove dovette subire un’altra persecuzione. Ebbe comunque modo di far ritorno a Cese quando i suoi seguaci raggiunsero il traguardo del sacerdozio e celebrarono la prima messa alla sua presenza. Tornò nuovamente anche in occasione del proprio cinquantesimo anno di sacerdozio. In quella circostanza, dal pulpito disse: «Sono finalmente tornato tra la gente che mi ha salvato la vita, la stessa che ho avuto modo di ringraziare allora e che ringrazio ancora oggi».
[1] «Radar Abruzzo», Avezzano, marzo 1993.