Una passeggiata aldilà
Un racconto di Alessandro Fantauzzi. Se vuoi pubblicare anche tu una storia scrivici a info@qualcheriga.it
Non ricordo esattamente in che modo ero passato a miglior vita. Forse un incidente stradale, forse un attacco di cuore, il particolare mi sfuggiva, ma al di là di questo fattore più o meno importante, di una cosa ero sicuro. Ero morto.
La prima impressione che ebbi della morte fu che non tutto finiva come avevo sempre immaginato nella mia vita da ateo non praticante, bensì esisteva una sorta di continuum che teneva conto di tutto quello che ero stato. Tutto ciò, c’è da dirlo, era rassicurante. La mia forma fisica era pressappoco la stessa, avevo lo stesso corpo panzuto dei miei 36 anni, ma se all’apparenza tutto era immutato – perfino i vestiti erano gli stessi – mi sembrava che la mia consistenza fosse scemata e che fossi per certi aspetti quasi trasparente.
Dopo le dovute autoanalisi e gli accertamenti del caso, iniziai a prendere confidenza con l’habitat in cui mi ero ritrovato. All’apparenza sembrava una specie di giardino in montagna, una villa comunale in alta quota, ed essendo nato e cresciuto fra i monti d’Abruzzo, l’ambiente mi sembrava abbastanza familiare. Non notai rumori o particolari forme, solo una specie di stradina che mi venne naturale prendere e che dopo qualche minuto di cammino mi portò fuori da un grande edificio a metà fra una caserma e un istituto.
Lo stabile, per quanto all’inizio sembrasse un gigante di cemento come tanti ecomostri visti nella vita terrena, emanava qualcosa di speciale, che sembrava collocarlo nel contesto naturalistico come elemento architettonico indispensabile per dare un equilibrio a tutto quello che gli sorgeva accanto. Avvicinandomi sempre più notai che il gigante era simile a un Titano di cui non si riusciva a capire quale potesse essere la fine. La stradina che avevo imboccato precedentemente, però, conduceva a un portone, così mi avvicinai e provai a entrare. La porta era aperta, nessun lucchetto, nessun casellante, nessuna guardia, così feci per aprire e mi ritrovai all’interno.
Con mia grande sorpresa, il silenzio e la calma dell’esterno furono sostituiti da un gran brusio e un gran moto di persone, un via vai quasi frenetico; tutti avevano un corpo dalle sembianze umane, ma la consistenza era simile alla mia, tutti sembravano identici alla vita reale, ma erano in qualche modo semi-trasparenti, i loro gesti, il loro gran da fare, sembravano quelli di una grossa azienda o di un grandissimo ufficio pubblico (di certo non italiano). Non capendo appieno cosa ci facessi in quel posto e quale sarebbe stato il mio destino e vedendo che le persone all’interno continuavano incuranti di me nel loro operato, decisi di esplorare l’edificio per cercare di capire che diavolo stesse succedendo.
Dopo aver superato quelli che sembravano uffici, mi ritrovai così in un grosso salone dallo stile vittoriano; qui incontrai per la prima volta una donna che sembrava normale, ma che aveva il viso coperto da una maschera d’argento. Fu lei la prima persona a parlarmi nell’aldilà: «Benvenuto! Come immaginerai sei passato a miglior vita. In questo posto vengono riciclate e rimandate sulla terra le anime. Credo che questo non sia l’unico posto e ce ne siano altri, ma tu sei stato assegnato qui, quindi rimarrai con noi finché un giorno, forse, ti rispediranno giù».
Al di là delle diverse considerazioni che avrei dovuto fare sul luogo, sul riciclo delle anime e annessi e connessi, la prima cosa che mi venne in mente di chiedergli fu il perché di quella maschera, ma la gentil dama fece come se non avessi aperto bocca e si incamminò verso la stanza alla fine di un lungo corridoio. Rimasi un attimino interdetto, lei mi fece cenno di seguirla e io non avendo altro da fare, la seguii. Arrivammo in una stanza in cui c’erano persone in camice bianco e mascherina intenti a riversare dentro tubi di ottone delle capsule con all’interno un materiale luminoso, una specie di gas intrappolato all’interno dei bussolotti che una volta inseriti partivano via a razzo con una specie di risucchio.
Sembrava proprio l’interno di una fabbrica, gli “operai specializzati” svolgevano il loro mestiere con calma e solerte disciplina, i display sopra ogni tubo avevano una specie di countdown e tutto era sincronizzato alla perfezione. La donna d’argento mi spiegò che il percorso per arrivare alla purificazione e al reinserimento in società era lungo e che al termine di questo percorso le anime riciclate sarebbero state introdotte nei contenitori per poi essere lanciate e liberate sulla terra, dove avrebbero trovato posto, secondo le loro vite precedenti, grazie al potere che tutte le donne del mondo avevano, una linea diretta con l’infinito che inconsciamente consentiva loro di dialogare anche con entità non percepibili materialmente. Finimmo così il tour nella zona “di fatica” e passammo nella stanza successiva: qui trovai delle cabine con all’interno dei tubi della stessa forma dei precedenti, ma molto più grandi.
La signorina mi spiegò che servivano a chi aveva ancora dei conti in sospeso nella vita precedente per tornare fra i vivi e sistemare le cose, questo non era concesso a tutti, però molte anime usavano questi passaggi, anche molte volte, per tornare sulla terra e passarci un po’ di tempo. Chiesi se mi era possibile provare e lei mi aiutò a capirne il funzionamento. Entrammo così nella cabina, mi chiese dove volessi tornare, cercò Capistrello su una specie di mappa mondiale retroilluminata e mi fece entrare nel tubo. C’era una specie di seggiolino, mi disse di sedermi e aspettare e così feci, si accese così una luce fortissima e in pochi secondi mi ritrovai in mezzo al boschetto, sopra piazza del Comune, con un monito come colpo di coda che diceva: «Fra 6 ore si torna su, qualsiasi cosa tu stia facendo, ti consigliamo di tornare nel posto in cui sei arrivato onde evitare strani pastrocchi spazio-temporali».
Ero atterrato bene, diedi una controllata al mio corpo per vedere se era tutto apposto e mi accorsi che la mia consistenza era tornata quella di una volta, così mi incamminai verso la piazza. Appena arrivato fuori il bar incontrai il mio caro amico Nello Nino, che al vedermi fece un lieve sobbalzo ed esclamò: «Fagiò, ma ‘ntiri morto?» Sì, ero morto, ma ci sedemmo lo stesso a un tavolo per fare due chiacchiere e sul motivo della mia nuova apparizione. La cosa strana era che Nello Nino riusciva a vedermi, mentre per le altre persone era come non ci fossi, così mi ripromisi di chiedere alla donna d’argento il perché di quella differenza di percezione.
La prima cosa che volevo, comunque, era una Peroni, aprii il mio vecchio portafogli, ma all’interno c’era solo una piccola banconota anch’essa semi-trasparente che offrii a Nello come souvenir in cambio di 5 euro reali. Da buon amico qual era accettò subito e lo esortai quindi a prendere due bottiglie da 66. Acconsentì, anche se non era certo necessario convincerlo, e placata l’arsura alcolica iniziammo a chiacchierare. I racconti sulla mia prima giornata nell’aldilà lo divertivano. In realtà, nel mondo terreno, erano passati diversi mesi e il mio ricordo ormai era sempre più sbiadito fra amici e parenti che continuavano ad arrabattarsi affrontando la quotidianità della vita reale.
Nello Nino su mio invito fece un paio di squilli a qualche amico, senza spiegare il reale motivo della sua convocazione e su mia richiesta non chiamò casa perché non volevo far rischiare un infarto ai miei parenti, arrivò quindi Gianluca e insieme trascorremmo un pomeriggio di racconti e ricordi, finché visto il tempo a disposizione, abbracciai i miei amici e mi riavviai verso il boschetto per tornare da dove mi avevano spedito. Promisi loro di tornare, anche se non ne avevo la certezza, ma avevo ancora voglia, tante cose da dire e tante persone da vedere. Arrivato nel boschetto, più o meno in orario, una nuova luce accecante mi avvolse e mi ritrovai nella cabina da dove ero partito.
Ad aspettarmi c’era sempre la donna col viso d’argento, avrei voluto chiedergli perché gli amici potevano vedermi e gli altri no, ma mi fermò subito, dicendo che per la giornata, un’altra persona mi avrebbe accompagnato e avrebbe risposto alle mie domande. Con mia grandissima sorpresa scoprii che questa persona era un mio vecchio amico che aveva lasciato il mondo terreno qualche anno fa, il caro Bisonzio. Mi guardò scuotendo il capo stupito del vedermi già nel suo nuovo “territorio”: «Fagiolo, Fagiolo, già si arrivato ecco? Tenii na vita annanzi».
Avrei voluto giustificarmi per essere “arrivato già lì” in effetti, ma non ricordavo assolutamente di come ci ero capitato e quindi d’istinto lo abbracciai e lui ricambiò con un gran sorriso fatto dai suoi pochi denti ancora integri. Non era cambiato per niente. Fu lui a spiegarmi in poche parole che i miei amici potevano vedermi perché i legami che si creano nella vita resistono nell’infinità del tempo e dello spazio e danno modo di superare le barriere fisiche che noi tutti conosciamo. Mi ripromisi di approfondire, per il momento la cosa mi bastò, così ci avviammo assieme verso l’esterno per fare una camminata nei boschi, non prima di passare dal reparto mensa, una sala gigantesca e candida come il latte che descriverò meglio in futuro, quando finalmente riuscirò a finire questo benedetto sogno!
Photo credit: Alone in front of Sunset via photopin (license)