Vito Taccone. Biografia di un pastore diventato campione
Ad Avezzano, in provincia dell’Aquila, c’è un nome il cui fascino resiste con forza allo scorrere del tempo: Vito Taccone. Negli occhi di chi ebbe la fortuna di essere presente, vi sono ancora le immagini di quando venne portato in trionfo a piazza della Repubblica, di fronte al palazzo di città, tra due ali di folla che ne acclamavano i successi sportivi conseguiti al Giro d’Italia del 1963. Sessantamila persone, secondo i filmati d’archivio. dell’Istituto Luce, lo accolsero come un novello Napoleone di ritorno da una delle sue campagne più prestigiose. Dal campanile della chiesa di San Giovanni, ricostruito dopo il sisma del 1915, le campane suonavano a festa e la gente accorsa, consapevole di partecipare a un evento unico e forse irripetibile, si lasciò andare a scene di giubilo collettivo. Chi non ha vissuto in prima persona quei giorni di gloria ha potuto però apprezzarli grazie ai racconti e agli aneddoti che nel tempo sono diventati parte integrante delle conversazioni degli abitanti del territorio, e non solo. Vito Taccone ha abbracciato diverse generazioni di avezzanesi e abruzzesi, e da tutte ha ricevuto amore e apprezzamento in egual misura, nonostante un carattere non sempre facile da gestire. Per alcune ha rappresentato il riscatto, per altre un esempio, per altre ancora una fonte d’ispirazione. Da qualche parte, se portate la mano a cucchiaio vicino all’orecchio e prestate attenzione, si sente ancora cantare: «C’è Taccone che va come il vento, se lo vedi è sempre un portento, la vittoria gli sospira nel cuore ma è difficile primo arrivar».
Sono passati quindici anni da quando ci ha resi orfani della sua presenza, ma la città non la ha mai dimenticato. È stato fra i figli più illustri di Avezzano e della Marsica, capace come pochi altri d’incarnare lo spirito di un popolo. Caparbio e tenace, testardo e presuntuoso, a volte arrogante e scontroso, eppure in possesso di un animo indomito e di una forza di volontà sconfinata. Nel corso della propria vita, Vito Taccone è stato molte cose: marito, padre. Studente, fornaio, pastore. Sportivo e simbolo. È stato anche amante, già, ma del ciclismo, sport che lo ha reso famoso e ne ha enfatizzato le caratteristiche umane esponendole in tutte le loro vorticose contraddittorietà. Una matriosca di umori, modi di pensare e di agire. Il Camoscio d’Abruzzo, a tratti, è stato talmente imprevedibile da spiazzare anche chi pensava di conoscerlo profondamente.
Raccontare la storia del ciclismo italiano – specialmente quello degli anni Sessanta – senza menzionarlo è affare assai rischioso, se non azzardato, perché di ricordi indelebili negli almanacchi delle due ruote ne ha lasciati eccome. Le sue gesta hanno resistito all’inesorabile logorio del tempo che ingiallisce le pagine della cronaca, comprese quelle rosa del più famoso rotocalco sportivo tricolore. Talenti e campioni si alternano con ciclica frequenza ma personaggi così no, non ne escono fuori tanto facilmente. Una storia incredibile, scritta con coraggio, determinazione e sacrificio. Passare dal patire la fame all’ambire, a soli ventitré anni, alla vittoria del Giro d’Italia nel 1963, in cui vinse cinque tappe di cui quattro consecutive, non accade di frequente.
Taccone ha riversato nel ciclismo passione e disperazione. La sua furia agonistica, spesso alimentata da esigenze famigliari, veniva ulteriormente motivata da un grave stato d’indigenza che nelle circostanze più disparate lo costringeva a ricorrere a fantasiosi escamotage da strada per tirare a campare. Episodi che non avrebbero sfigurato all’interno de I Miserabili di Victor Hugo. La vita, con il ciclista avezzanese, non sempre è stata generosa. Attore protagonista di numerosi episodi controversi, è finito nello’occhio del ciclone in più momenti. A ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria e così le sue imprese meno nobili poterono trovare una parziale giustificazione nell’essere figlie di una società dilaniata al al suo interno, povera, misera, sovente meschina e gretta, sfiancata da ingiustizie sociali e costanti lotte di classe.
Spesso al centro di eventi che hanno messo in ombra i meriti sportivi, ha saputo domare le cime più alte e faticose ma non un carattere a tratti ingestibile e sopra le righe. Ha entusiasmato e fatto sognare un territorio a lungo disastrato da una serie di tragici eventi. Un popolo ferito, quello marsicano, che ha sempre affrontato a testa alta calamità naturali e belliche. Perché chi nasce in un territorio circondato da imponenti catene montuose, dove la natura e l’uomo s’incontrano e si rispettano, non conosce il significato di resa. Perché, per usare un detto del posto, chi si piega e abbassa la testa lo fa solo per raccogliere la genziana.
«Coppi + Bartali = Taccone», recitava uno dei tanti cartelli che omaggiavano il Camoscio d’Abruzzo. Prendete i due miti immortali del ciclismo italiano e fondeteli, avrete Vito Taccone. Era questo il senso dello slogan. Fausto Coppi e Gino Bartali sono e saranno, con molta probabilità, tra i più grandi di ogni epoca, ma non è questo il punto. Vito Taccone, con la sua grinta, la sua forza d’animo, la sua vulcanica voglia di superare se stesso e i pregiudizi su un corpo non ritenuto idoneo al ciclismo di alto livello, ha saputo fare breccia nel cuore degli italiani. C’è stato un periodo in cui, ovunque andasse, era riconosciuto e celebrato, specialmente nel centro sud Italia. A lui non interessava essere Coppi o Bartali, bensì il pastore trasformatosi in campione, l’ignorante senza prospettive di futuro che ha rincorso con le lacrime agli occhi un sogno e che, dopo averlo raggiunto, lo ha abbracciato finché ha potuto.
E lo ha fatto a modo suo, come tutto il resto d’altronde.