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Giuseppe Testa, detto Peppino, e la Resistenza di Morrea

Giuseppe Testa detto Peppino è un eroe partigiano. Un giovane ventenne di Morrea, paesino sperduto nella splendida Valle Roveto, che pagò con la vita per difendere quella degli altri. Un destino comune a quello di tanti altri che durante gli anni più bui della nostra storia non hanno potuto vedere la luce, e che qui si è deciso di tramandare a imperitura memoria sul web, grazie soprattutto ad Ariele Vincenti, giovane attore e autore teatrale che proprio sulle storie dimenticate della Valle Roveto – e dell’Abruzzo più in generale – sta dedicando le sue più recenti fatiche. È un piacere, allora, ospitare su queste pagine il testo del suo ultimo monologo teatrale dedicato proprio a Giuseppe Testa, l’eroe partigiano di Morrea. Buona lettura e, soprattutto, buona conoscenza a tutti.

Giuseppe Testa… per gli amici Peppino

Un po’ tutti abbiamo familiari originari di qualche paese; padri, madri, nonni, bisnonni. A Roma ad esempio si dice che “Semo tutti un po’ abruzzesi!”

Eh sì, per via dell’ondata migratoria post bellica che dalle montagne dell’Abruzzo portò manovalanza a buon mercato nella capitale… tutti arrivavano da paesi come questo… il famoso “paese mio”.

Quelli delle chiavi lasciate attaccate alle porte, dei campanili, dei bar dello sport, delle piazze centrali, della gente che saluti per strada, dei lampioni agli angoli dei vicoli, quei vicoli stretti stretti che ti riparano dal freddo, dove anche un abbraccio fa rumore. Solo nei paesi i bambini hanno la libertà degli adulti. È per questo che sono felici di andarci, perché sono liberi di giocare, di correre dalla mattina alla sera.

Così facevo io quando andavo a trovare mia nonna. E io ci andavo tutti gli anni a trovarla, come finiva la scuola, via, al paese mio, per tutta l’estate. A correre e giocare.

Il paese mio si chiama Morra, un pugno di case poggiate su un cucuzzolo di montagna, raccolte intorno ad un castello del Quattrocento. Se ne sta lì tra le rocce silenziose di una lingua di terra, dove due catene di monti si specchiano per trenta chilometri, chiamata Valle Roveto.

Giuseppe-Testa-Morrea

Foto di Marica Massaro – Opera propria, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=68325129

I vicoli ripidi di Morrea oggi purtroppo sono disabitati anche se fino a qualche decennio fa erano pieni di vita… un via vai di gente dalla mattina alla sera, a non finire, bambini che corrono, anziane sedute a commentare i passanti, decine di donne con le fascine di legna in testa oppure con la conca piena d’acqua che sfilano in processione su e giù per il paese… mentre i loro uomini con le camicette di flanella a scacchi, straccali e cappello in testa, camminano fieri con l’asino da una parte e la zappa dall’altra di ritorno o verso la campagna… a spezzarsi la schiena… a coltivale e zappare, coltivale e zappare… finché un giorno specifico uguale tutti gli anni, sempre quello, via per quei tratturi sassosi e pieni di storia, con le loro greggi… “Forza!!! Forza! C’avemo da fa, mettemose ‘n cammino!” a dare l’inizio del sacro rito della transumanza.

Questa è la storia di Morrea. Una piccola, compatta e fiera comunità di forti e sani montanari, che viveva la sua quotidianità, fatta di fatiche, di schietti sentimenti familiari, di usi, costumi e tradizioni secolari.

Finché un giorno arrivò la guerra e qui, nella Valle Roveto entrò proprio a gamba tesa. Perché, nonostante l’apparente inutilità geografica, in realtà essa fu una zona determinante per le strategie della Seconda Guerra Mondiale; a pochi chilometri da qui si sono combattute le più sanguinose battaglie il cui esito ha ridisegnato i confini territoriali e politici di tutto il mondo. Nella zona di Cassino c’era il fronte, con la linea Gustav da una parte e gli alleati dall’altra. Così la Valle Roveto, occupata dai tedeschi per quasi un anno, divenne la mensa di approvvigionamento viveri per la loro prima linea. Grano, bestie, patate, formaggio, vino. Se ti trovavano qualcosa da mangiare, via, al fronte di Cassino a sfamare i soldati tedeschi in trincea riducendo in miseria la già povera popolazione…

Il 14 e 15 settembre del 1943 giunsero attraverso le montagne i primi soldati in fuga dai campi di prigionia di Avezzano, e da lì in poi cominciò il transito carbonaro di soldati e ufficiali italiani e inglesi ma soprattutto indiani. Il giovane parroco del paese Don Savino Orsini, basso e magro, con due zampette che lo facevano arrampicare su per le rocce come un capretto, pensò che fosse necessario organizzare un piccolo comitato d’accoglienza che li potesse nascondere dai tedeschi. Ben presto il comitato d’accoglienza divenne un vero e proprio drappello partigiano.

Tra gli appartenenti al drappello c’erano i poco più che ventenni Pietro Casalvieri e Ugo Gemmiti, insieme a Giuseppe Testa, per gli amici Peppino, di appena 19 anni. Ed eccolo il nodo di questa storia. Perché questa è una storia di ragazzi poco più che adolescenti, una storia di giovani eroi che giurarono sulla loro vita di rimanere fedeli ai loro ideali e ai loro valori. Da lì iniziò la resistenza di Morrea.

I tre si aggregarono alla “Banda dei Patrioti Marsicani” mentre tutta la popolazione, guidata da Don Savino, si mise subito al lavoro nascondendo i soldati alleati nelle case, nelle cantine, nelle stalle, o nelle grotte sparse per le campagne dividendo con loro quel poco che avevano da mangiare. Così, ai 450 abitanti di Morrea si aggiungono circa 2100 prigionieri indiani e inglesi e 2700 soldati e ufficiali italiani. Tra questi soldati, però, ce n’è uno diverso dagli altri, uno con la faccia rassicurante, un tale di nome Giovanni, che diceva di essere un medico inglese fuggito anche lui da Avezzano.

“Le truppe tedesche dislocate nei paesi limitrofi ci considerano un paese pericoloso. Dicono Morrea partigiana, Morrea socialista, Morrea? Kaput!”, così diceva Don Savino agli abitanti di Morrea.

E loro hanno sfidato la minaccia. Il duro accerchiamento del 21 marzo del ’44 dimostra che il popolo di Morrea si spezza ma non si piega.

È ancora l’alba, una freddissima alba. Il tempo è brutto, minaccia di piovere… c’è quell’aria, uhmmm, che non promette niente di buono, quell’aria che quando la senti alzi gli occhi per vedere di persona il colore del cielo che… conferma le tue brutte sensazioni… e infatti, di lì a poco, cinque compagnie di soldati armati partiti da Civita d’Antino arrivano a Morrea, invadono i vicoli, le piazze, fanno irruzione nelle case, nelle cantine, nelle grotte, distruggono il silenzio dell’alba.

“Dove essere soldati Inglesi? Consegnare noi soldati Inglesi o Morrea Kaput!”.

Pane e polvere banner

I prigionieri ospiti delle famiglie riescono a calarsi nei pozzi già preparati o a disperdersi nelle montagne. Ma oltre ai soldati inglesi, i tedeschi cercano anche i tre giovanissimi membri del comitato.

È mattina presto. Peppino, a casa, dorme con la sua famiglia insieme all’ufficiale inglese Douglas Dutton. Ora accanto all’ufficiale tedesco col mitra spianato c’è quell’infame delatore di Giovanni, il soldato che diceva di essere un medico inglese. Ora è in camicia nera e la sua faccia non è più tanto rassicurante, ma si colora di un sorriso cinico e beffardo.

Quando Peppino sente bussare capisce subito. È un ragazzo sveglio Peppino. Balza giù dal letto, fa in tempo a far calare l’inglese nel pozzo e ad alzare le mani davanti agli SS che frugano dappertutto chiedendogli informazioni, lui risponde di non sapere niente con una calma inconsueta, quasi ingiustificata, sicuramente più adulta dell’età che ha.

I tre vengono portati a San Vincenzo, poi al comando tedesco di Civita d’Antino per un primo interrogatorio “scientifico”. Lo chiamano così, e in parole spicciole significa un lungo calvario di torture. Nessuno di loro parla. Vengono rilasciati Casalvieri e Gemmiti, viene trattenuto Peppino che continua a subire torture e umiliazioni di ogni genere. Da un interrogatorio a Civita d’Antino ne esce con un braccio spezzato. La notte stessa, non soddisfatti, i tedeschi lo trascinano con un cappio al collo per tutto il paese, come a dire: “Vedere come finire chi non collabora con noi?!”.

Ma lui niente! Sta zitto! Non parla! È testardo più di un mulo Peppino! Si prende le botte, tante botte, in silenzio, ma stavolta non è un silenzio armonico, no, è un silenzio che urla, urla la sua disperazione e la sua voglia di uguaglianza e libertà. E quel silenzio Peppino se lo porta attaccato per 50 giorni in cui spietati interrogatori lo riducono in fin di vita, fino a quando, poco prima della parola fine, gli offrono di mettersi con loro e lui risponde: “La vostra divisa disonora l’uomo!”.

Certamente il nome del vostro villaggio e di tutti i suoi abitanti dovrebbe essere scritto a lettere d’oro nell’albo storico della grande conflagrazione mondiale, per difendere la Libertà, la giustizia e gli ideali democratici. Mi soffermo in atto di ammirazione e di umiltà al pensiero dei sacrifici della vostra Comunità.

Comandante Stebbins

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