Cronache di un abruzzese d’America. L’introduzione

[“Vincent Massari. Cronache di un abruzzese d’America” è il nuovo libro di Radici Edizioni scritto da Alessio De Stefano, creatore e curatore della Piccola Biblioteca Marsicana. Il libro nasce proprio lì dentro, in un luogo in cui hanno trovato casa anche le tante suggestioni e notizie citate nei giornali diretti negli USA dal Massari emigrante, partito per il Nuovo mondo da Luco dei Marsi nel 1915. Alessio, più di cento anni dopo, quelle suggestioni è andato a ricercarle direttamente in Colorado, così da toccare con mano qualcosa di quello che era stato. Il risultato di questo viaggio è tutto nel volume in libreria dal 4 di marzo, in cui si racconta del Massari bambino a Luco dei Marsi, seminarista a Penne, emigrante sul piroscafo Taormina, sindacalista dei minatori, giornalista, editore, rappresentante alla Camera del Colorado e infine senatore. Qui di seguito, invece, è dove potete la sua introduzione al volume].


La prima volta che ho letto il nome di Vincenzo Massari ero sulle tracce dei pescatori del lago del Fucino che avevano vissuto e faticato lungo le sponde di quello che fu, fino al suo prosciugamento definitivo avvenuto nel 1878, il terzo bacino d’acqua dolce d’Italia per estensione, incassato nelle montagne dell’Abruzzo interno. 

Non sapevo nulla di lui. 

Un pomeriggio, durante una ricerca negli archivi digitali dei Colorado Newspapers, ho scoperto che negli Stati Uniti dirigeva una testata che si chiamava Marsica Nuova, e immediatamente sono stato catturato dalla sua vicenda, umana e politica. 

Vincenzo era sopravvissuto al terremoto della Marsica del 1915 per pura coincidenza, ritrovandosi in America a lavorare in miniera con il padre, a collaborare con dei giornali, a dirigerne e a organizzare sindacati, per poi avviare una brillante carriera politica nello stato del Colorado.

La sua passione per l’Abruzzo e la tenacia verso il riconoscimento della comunità italiana negli Stati Uniti hanno permesso di preservare, attraverso il suo archivio, un patrimonio davvero unico per la storia della regione. Ma il racconto della sua vita mi sembrava incompleto, senza vedere i paesaggi, le strade, i cieli che lo avevano conosciuto. 

Per questo motivo ho deciso di passare una decina di giorni a Pueblo, dove Vincent aveva lavorato e trascorso tutta la sua vita, per fare delle ricerche più approfondite. 

Racconto questa storia alla coppia che mi ospita in quei giorni, Bob e Lucía, e al loro amico Pan. Nel giardino della casa a un piano in cui vivono, di fianco a un vialetto pieno di girasoli, è parcheggiato un enorme scuolabus giallo di marca Bluebird. La particolarità è che il tettuccio è rialzato di diversi centimetri, forse mezzo metro, con un imponente lavoro di saldatura.

«Era troppo basso per starci comodamente», dice Bob, che è alto quasi due metri.

All’interno lo scuolabus è completamente attrezzato per poterci vivere, con un bagno, una doccia, diversi posti letto e uno spazio per cucinare. Bob lo ha usato per andare in giro negli Stati Uniti come se fosse un camper, dopo essere tornato dall’Iraq. È un veterano di guerra.

Nelle serate trascorse insieme, mi racconta della sua vita in tenda, nel deserto, con le bombe a illuminare il cielo osservate attraverso i visori notturni, in attesa di ordini. Quell’esperienza lo ha segnato nel profondo, facendolo tornare a casa con una sindrome da stress post-traumatico che lo rende inquieto e a volte scontroso, ma la sua gentilezza e il suo cuore dolce sono tenuti al riparo dall’amore che condivide con Lucía. È lei lo spirito gentile della casa: è nata in Argentina e il suo cognome è italiano. Nonostante la fatica del lavoro, ogni sera torna a casa e raduna tutti quanti per la cena insieme ai suoi due labrador retriever: Pepper e Clubby.

Bob, Lucía e Pan sono così accoglienti da accompagnarmi ogni giorno con la macchina in biblioteca per le mie ricerche, perché il complesso universitario si trova in una zona a nord di Pueblo chiamata Belmont, a quindici chilometri di distanza dalla loro casa, e con i mezzi pubblici ci vorrebbe troppo tempo. 

Durante uno di questi viaggi in macchina, mentre fuori dal finestrino scorre il profilo della città e spuntano le ciminiere delle antiche acciaierie, mi parlano dello scuolabus e del loro incontro con Pan. Un giorno, mentre Bob era nei boschi alla ricerca di un posto in cui stazionare, un tizio con una lunga barba, un po’ bionda e un po’ bianca, gli si è avvicinato per chiedergli una birra: era Pan. 

Pan ha gli occhi e lo sguardo di Clint Eastwood, ma invece del celebre ghigno dello Straniero del film di Leone, ha un sorriso sfacciato e una risata da diavolo pazzo che rimbalza sui muri della casa fin dalle prime ore del mattino.

Mi racconta dei suoi incredibili lavori, da musicista di strada a cercatore d’oro, mi dice di aver sgobbato per vent’anni nelle cucine d’America, cominciando come lavapiatti e arrivando a diventare aiuto chef. Mentre taglia le verdure in giardino per preparare una salsa marinata alle pesche da aggiungere alle bistecche di maiale, tira fuori la sua storia, e in pochissimo tempo tra di noi si crea grande sintonia. 

La sera ci ritroviamo a suonare la chitarra in cortile con un paio di birre, mentre dai giardini dei vicini arriva il ticchettio ritmato degli irrigatori. Prendo il telefono per cercare il testo di Bottom of the World, una canzone di Tom Waits. Il titolo mi fa pensare a come mi sento in questo momento, sperduto dall’altra parte del mondo in un quadratino d’America.

«Una volta mio padre mi disse che il miglior amico che puoi avere sono le rotaie del treno. Così a tredici anni mi sono detto me ne vado per la mia strada senza tornare più a casa». 

Sono parole che vanno dritte al cuore di Pan. Ci sono fuochi accesi attorno ai quali le persone si scaldano, ricette con animali fantastici cacciati lungo i bordi delle strade, nomi incredibili come Blackjack Ruby, Birdy Joe Hoax e Scarface Ron. 

Mi fermo un momento per chiedere a Pan: «Chi sono queste persone di cui parla Tom Waits?».

«Io li conosco questi tizi. Se vivi per strada è normale avere un soprannome o un nomignolo. Può nascere per caso o puoi scegliere tu come farti chiamare. Una volta ho incontrato uno che si faceva chiamare “That guy”, “Quel tipo”. Nessuno sapeva il suo vero nome, era semplicemente “Quel tipo”». 

Tra i tanti tatuaggi che scoloriscono sulla pelle di Pan c’è una scritta: “Love is the word”. In questa piccola frase rivedo la sua storia, quella di un giramondo, determinato e fiero nel ritagliarsi il suo spazio di libertà, a dispetto delle convenzioni rigide della società americana.

Gli mostro le cartoline di Avezzano che ho portato con me, risalgono a prima del terremoto del 1915. Lui le scorre piano, tenendo una sigaretta tra le dita, lo sguardo concentrato. 

Nei dieci giorni che passo con loro non ho mai la sensazione di sentirmi ospite, ma parte di una piccola famiglia con cui condivido storie, paure e risate. Gli racconto il motivo della mia visita a Pueblo: «Voglio scrivere la storia di Vincent Massari, un signore nato in un paese non lontano dalla mia città, partito per gli Stati Uniti pochi giorni prima che un terremoto distruggesse la nostra terra e uccidesse oltre trentamila persone. Quando è arrivato in America ha mantenuto il legame con le sue origini e ha salvato tantissime memorie che altrimenti sarebbero andate perse. Poi ha fondato dei giornali e ha denunciato il regime fascista. Una volta finita la guerra ha iniziato una brillante carriera politica, battendosi per il bene del Colorado e promuovendo la fondazione dell’università statale di Pueblo».

«Una vita davvero interessante – dice Pan – una vita al servizio della sua comunità».

«Sì. E la sua storia mi ha portato qui, insieme a voi. E ora che vi ho conosciuto, penso che dobbiate fare parte di questo racconto». 

«Magari puoi iniziare il tuo libro proprio così, con noi due che parliamo qui fuori».

«Mi sembra una magnifica idea».

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